La delegazione AIS di Trieste ha organizzato una serata di degustazione di vini californiani per introdurre la nuova edizione del Master sulla California, ideato e tenuto da Roberto Filipaz, delegato di Trieste, con la collaborazione di Bruno Cataletto.
Lo stato della California ha una superficie all’incirca equivalente a quella dell’Italia, e sebbene non possa forse vantare la medesima diversità, tentare di omologarne la produzione in una definizione omnicomprensiva sarebbe limitante e mortificante, per il fruitore prima che per il produttore.
Il master che AIS Trieste terrà nel 2019 si articolerà su più incontri, ciascuno dei quali affronterà un argomento in particolare.
Si partirà – a mio avviso giustamente – dalla storia della viticoltura in California, per comprenderne la direzione e le scelte, per poi scoprire le peculiarità delle diverse zone.
Cenni storici sulla viticoltura in California
La viticoltura negli Stati Uniti inizia in corrispondenza della rivoluzione industriale europea (1850 circa), cioè il periodo in cui molti Europei sono costretti a emigrare e cercano di fare fortuna dall’altra parte dell’Oceano, partecipando alla corsa all’oro.
È a questo periodo che risale la prima attestazione della presenza di una varietà importante: lo Zinfandel. A livello genetico è la medesima varietà nota in Puglia come Primivito e in Croazia come Plavec mali, ed è forse proprio della Croazia che è originario (non è chiaro quale sia stato il percorso, secondo alcuni è dalla Puglia che si è diffuso, ma di certo nasce in Europa); eppure in California è considerato autoctono, perché è qui che da 200 anni viene coltivato massicciamente ed è qui che ha dato i risultati più espressivi.
Nello stesso periodo, Agoston Haraszthy, un mercante di origine magiara, importa dall’Ungheria numerose talee di vitigni diversi e fonda quella che è considerata la prima “winery” vera e propria, iniziando l’attività di vinificazione delle uve coltivate in proprio.
Nel frattempo proseguono le immigrazioni e, dopo il primo flusso di tedeschi, olandesi, francesi e inglesi, è la volta degli italiani – siamo nel 1870 circa – tra cui la famiglia piemontese Seghesio.
Più devastante della filossera, negli USA è stato il proibizionismo, che, in concomitanza con la crisi del ’29, ha determinato la chiusura di numerose aziende vitivinicole. In questi anni, il numero delle cantine scende da 2000 a 100.
Il proibizionismo finisce nel 1933, e le aziende vinicole impiegano circa dieci anni per tornare al tenore produttivo che avevano prima.
Enorme impulso alla viticoltura californiana lo dà il giudizio di Parigi (1976), non solo e non tanto affermando la qualità dei vini della zona, bensì soprattutto sancendo quali siano i vitigni che meglio vi si esprimono.
Nel 1984 si verifica un nuovo flagello di filossera, che distrugge circa l’80% del patrimonio vitivinicolo americano.
È una perdita incommensurabile, ma è anche l’occasione per selezionale e piantare solo i vitigni che meglio si esprimono, elevando così la qualità media della produzione dello stato.
Sono anche gli anni in cui è presidente Reagan, che da attore e proprietario di un ranch nell’AVA Santa Ynez, promuove l’immagine del vino nel cinema hollywoodiano attraverso operazioni che oggi chiameremmo di “product placement”; il calice di vino sostituisce il sigaro della Golden Age tra le dita degli eroi di celluloide.
La fortuna del vino californiano, tuttavia, non si deve solo a eccezionali exploit qualitativi e ad astute operazioni di marketing. Sono soprattutto gli esperti produttori europei a farne la fortuna, approfittando della possibilità di sperimentare e innovare.
Tra essi, è imprescindibile l’apporto degli italiani fratelli Gallo, che per primi hanno fondato una cantina in Lodi, piantando quelle che ora sono tra le più vecchie vigne di Zinfandel in California e creando la più grande azienda a conduzione familiare al mondo.
Decenni dopo, il regista Francis Ford Coppola ha investito nelle winery in California i proventi dei suoi fortunati film, fondando una azienda sua, e ricalcando la teoria dei Gallo di produrre “vino per tutti”, cioè non un vino privo di carattere e, pertanto, declinabile in diverse situazioni, bensì una produzione estremamente diversificata, che includesse vino da tavola popolare quanto produzioni minime di zone limitate e vocate, di cui il tipico esempio è l’Alexander Valley.
Non si può parlare di California senza parlare di Robert Mondavi, la cui logica produttiva e di mercato è precisamente opposta a quella dei fratelli Gallo.
Egli lavora per far sì che la Napa Valley diventi una delle zone più importanti al mondo, grazie a una qualità media elevata; per essere, dunque, non il re guercio di un paese di ciechi, ma il migliore di una zona prestigiosa.
Effettua, tra le altre cose, cospicue donazioni a sostegno dell’istituto di enologia e della zona, affinché la ricerca non si debba fermare.
Oggi la California è uno stato la cui produzione appare omogenea solo al consumatore meno esperto, perché sebbene il numero di varietà coltivate sia ridotto – e si sia ridotto anche in nome del successo di mercato che alcune garantiscono – le espressioni territoriali restano peculiari.
Dal Kimmeridge dell’AVA Paso Robles alla calda Napa Valley settentrionale, passando per la fresca AVA Russian River e la nebbiosa Napa Valley del sud, ogni zona ha tratti precisi da rivelare.
Durante la serata organizzata da AIS Trieste il 9 novembre, ci siamo concentrati sulle aree vinicole nei pressi della baia di San Francisco, influenzate dal clima e dalle nebbie che la particolare conformazione orografica determina, patria di vini tra i più apprezzati al mondo e di interessanti variazioni sul tema.
Degustazione di vini californiani con i Sommelier di AIS Trieste
#1 Gnarly head
Petit Sirah (Durif) dal Lodi, AVA nella Central Valley dove si trovano fra le più antiche e migliori vigne di Zinfandel, con cui spesso questa vaietà è unita in blend (anche se non appare in etichetta).
Ha chiari e intensi profumi di frutta nera, in particolare mirtillo, e spezie; delicati sottobosco e vaniglia, accentuata dal residuo zuccherino palese.
I tannini sono quasi taglienti, se paragonati allo stile della zona e non manca di freschezza.
#2 Ravenswood
Zinfandel dall’etichetta di Zinfandel californiano per antonomasia, che affina i propri vini in parte in rovere francese molto tostata, in parte in dolce rovere americana.
All’inizio è chiuso, poi ha chiare note di spezie scure (pepe, cacao) e frutta nera. La tostatura è netta e richiama quasi l’incenso.
#3 Beringer
Cabernet Sauvignon dalla Napa Valley con chiaro sentore di peperone verde, frutta rossa, ciliegia e fragola.
La speziatura è più lieve, ma torniamo a uno stile molto morbido, conferito dal residuo zuccherino percettibile.
#4 Crane Lake
Cabernet Sauvignon di una cantina che è un vero e proprio marchio, parte di un gruppo fondato da un nipote dei fratelli Gallo, che produce vini per il consumo quotidiano di qualità superiore, generalmente monovarietali, corretti ma raramente impegnativi.
Vi troviamo abbondante vaniglia, sebbene piuttosto ben integrata, e accattivanti sentori di frutti di bosco, dal lampone alla mora, alla ciliegia.
#5 Seghesio
Zinfandel 2014 di una delle cantine storiche della contea di Sonoma, fondata da una famiglia di emigrati piemontesi che, storicamente, ha dapprima cercato di trapiantare le grandi varietà italiane nel Nuovo Mondo e ha poi trovato la via dell’eccellenza applicando l’expertise italiano alla produzione di vini dalle uve che meglio si esprimevano sui nuovi terroir.
Risulta succoso, con profumi di frutti di bosco alleggeriti dalla freschezza della foglia di pomodoro e da profumi di fiori scuri, speziato di liquirizia – decisamente più caramella che radice.
Decisamente il più composto e raffinato della serata.
#6 Francis Ford Coppola
Cabernet Franc dell’ Alexander Valley dal naso piuttosto complesso di mora, lamponi, ciliegie, cassis, foglia di pomodoro, spezie e cacao, arricchito da una tostatura gentile del rovere, e reso piacevole da un sorso decisamente fresco, quasi acido, di fragola e lampone.